La nostra
società può essere definita come un feudo all’aria condizionata. Il
nostro cervello accoglie il “nuovo”, il tecnologico come miglioria. Ma,
finché si parlava di lavatrice questa tecnologia aveva la funzione di
sollevare la fatica soprattutto femminile, e potrei citare mille altri
esempi innovativi volti al “buono”. Ma la tecnologia è andata ben oltre,
una volta scoperto che certi mezzi, specialmente legati alla
comunicazione, sono tecniche di controllo sociale, quindi logiche di
potere.
La tecnologia offre possibilità e limitazioni. Ma il suo uso,
quando prevale, si sostituisce alle nostre funzioni “non tecnologiche”.
Come dire che senza numero memorizzato sul cellulare noi non siamo in
grado di imparare a memoria il numero – o meglio, sappiamo ancora farlo
ma siamo disabituati dal farlo, e così il leggere pagina per pagina un
libro. Perché farlo se internet ti dà la sintesi immediata? Il problema è
che internet dà potere. Di conoscenza spicciola, di relazioni
spicciole, di velocità idiota. Ma pur sempre una forma di potere. Da
schiavi, ma pur sempre una forma di “protagonismo”.
Il danno di
queste relazioni orizzontali e virtuali è quello di dimenticare le
emozioni, le percezioni tattili, olfattive, sensoriali, emotive
liquefacendole sull’altare dello schermo.
E creando una potenza
immaginaria ed illusoria tutta volta alla distrazione e alle
interruzioni cognitive. E così siamo in-formati ma non formati,
digeriamo pillole di fatterelli ma non sappiamo più contestualizzarli in
una analisi più generale. Sappiamo tutto sul particolare ma nulla del
generale.
La consapevolezza di “qualcosa“ non necessariamente indica la strada del cambiamento o della trasformazione.
Per mettere in atto il “cum sapere“ c'è necessità di leggere il termine
cum come con, insieme, in relazione. Altrimenti si rischia di isolarsi
nel proprio sapere. Altra necessaria considerazione è che per porsi in
relazione c'è bisogno di reciprocità, quindi di ascolto. E, oggigiorno, i
tempi dell'ascolto sono inesistenti. Così come quelli della
riflessione, figuriamoci quella della comunanza consapevole. Anzi, i
luoghi ed i tempi dell'ascolto sono vanificati dal troppo “rumore”,
dalla ridondanza di affermazioni che ci vengono propinate.
Ora, dato
che la consapevolezza di qualcosa deve necessariamente trovare alloggio
nella sua applicazione, altrimenti si riduce a teoria se non ha
capacità di messa in atto e questa applicazione deve essere collettiva,
non isolata a sé, altrimenti troverebbe solo testimonianza di
pacificazione della propria coscienza.
sabato 15 marzo 2014
venerdì 14 marzo 2014
pioggia di rane
Dunque è così che dobbiamo vivere? Nel costante presentimento
che ogni minuto speso lo è in direzione di qualcosa che,
fondamentalmente, è fine a se stesso? E che non resta che uno spazio
marginale per il senso, per la direzione intima, che ognuno contiene in
sé. Che istintivamente ci ri-congiunge, come una colonna vertebrale
immaginaria, verso l'alto, verso la linea tratteggiata della terra
verso il cielo. Invece è così antagonista la direzione in cui dobbiamo
spendere il nostro tempo, le nostre energie, le nostre gocce di sudore?
Poggiando pesantemente i piedi sulla terra arida e affastellando scatole
vuote? Cadendo ogni volta che si inciampa come fosse qualcosa di
inesorabile. Orare, pregare, che non si lascia commuovere. Quasi
esistesse un'unica legge: quella del visibile. Quale commozione
renderebbe possibile la vista di un cuore e un'anima che suda nella sua
imponderabile in-visibilità. Ci vorrebbe una pioggia di rane dal cielo a
ricordo di Magnolia, a farci trasalire. A scansarci dalla direzione
ottusa e orizzontale. A farci volgere gli occhi verso l'unica direzione
possibile che, con minuziosa e costante pignoleria, esorcizziamo,
giriandogli le spalle quotidianamente in nome dell'inutile
affastellamento. Con-figurati come sagome al bersaglio, ognuno ricopre
il cmquadro assegnatogli e vi ammucchia pile di mattoni a
rappresentazione di sé e del proprio valore in linea orizzontale. In
equilibrio costante tra apparizione e scomparsa. Limitandosi a pensare
che le regole del gioco siano quelle scritte sulla terra che
calpestiamo. Ci vorrebbe una pioggia di rane, l'ho detto, a ri-dettare
le regole, a scompaginare e seppellire i cumuli affastellati. A farci
volgere gli occhi al cielo tutti nella stessa direzione, tutti uguali
per una volta, tutti memori di quel che c'è davvero da sapere. Tutti
improvvisamente e consapevolmente umili nella percezione di quello che
siamo.
31 maggio 2008
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