Dunque è così che dobbiamo vivere? Nel costante presentimento
che ogni minuto speso lo è in direzione di qualcosa che,
fondamentalmente, è fine a se stesso? E che non resta che uno spazio
marginale per il senso, per la direzione intima, che ognuno contiene in
sé. Che istintivamente ci ri-congiunge, come una colonna vertebrale
immaginaria, verso l'alto, verso la linea tratteggiata della terra
verso il cielo. Invece è così antagonista la direzione in cui dobbiamo
spendere il nostro tempo, le nostre energie, le nostre gocce di sudore?
Poggiando pesantemente i piedi sulla terra arida e affastellando scatole
vuote? Cadendo ogni volta che si inciampa come fosse qualcosa di
inesorabile. Orare, pregare, che non si lascia commuovere. Quasi
esistesse un'unica legge: quella del visibile. Quale commozione
renderebbe possibile la vista di un cuore e un'anima che suda nella sua
imponderabile in-visibilità. Ci vorrebbe una pioggia di rane dal cielo a
ricordo di Magnolia, a farci trasalire. A scansarci dalla direzione
ottusa e orizzontale. A farci volgere gli occhi verso l'unica direzione
possibile che, con minuziosa e costante pignoleria, esorcizziamo,
giriandogli le spalle quotidianamente in nome dell'inutile
affastellamento. Con-figurati come sagome al bersaglio, ognuno ricopre
il cmquadro assegnatogli e vi ammucchia pile di mattoni a
rappresentazione di sé e del proprio valore in linea orizzontale. In
equilibrio costante tra apparizione e scomparsa. Limitandosi a pensare
che le regole del gioco siano quelle scritte sulla terra che
calpestiamo. Ci vorrebbe una pioggia di rane, l'ho detto, a ri-dettare
le regole, a scompaginare e seppellire i cumuli affastellati. A farci
volgere gli occhi al cielo tutti nella stessa direzione, tutti uguali
per una volta, tutti memori di quel che c'è davvero da sapere. Tutti
improvvisamente e consapevolmente umili nella percezione di quello che
siamo.
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