sabato 30 agosto 2014

Ellie Arroway


Tienimi stretta
tienimi vicina
portami con te.
Dentro questo passo
in quello che verrà
dentro questa mano
in quella che nascondi.

Dentro ogni pensiero
dentro ogni sgambetto
portami con te
dentro un movimento
dentro la sua pausa
quando siamo fermi
soli in riva al mondo
quando tu mi guardi
quando non rispondo
prendimi la faccia
usa quelle mani
prendimi la faccia
voglio che rimani.

Guardami.
e se devi andare
fa che sia per gioco
fa che sia per poco
fa che sia per finta
come nascondino
come da bambino
non è come sembra
tu sei la mia ombra
perché sei con me
anche quando piove
anche quando dormo
anche quando sogno
anche quando ballo
dentro una canzone
dentro un'emozione
dentro il suo riflesso
fuori come adesso
e prima di andar via
prendimi le mani
scioglimi i capelli
scoprimi la pelle
scendi sottotraccia
abita i miei cuori
abita gli odori
abita gli errori
abita la vita.
Vivimi così.
....Anche da lontano.

Ellie Arroway

giovedì 22 maggio 2014

Comprendo
la tua caparbia volontá di essere sempre assente
perchè solo così si manifesta
la tua magia. Innumeri le astuzie
che intendo.

Insisto
nel ricercarti nel fuscello e mai
nell'albero spiegato, mai nel pieno, sempre
nel vuoto: in quello che anche al trapano
resiste.

Era o non era
la volontá dei numi che presidiano
il tuo lontano focolare, strani
multiformi multanimi animali domestici;
fors'era così come mi pareva
o non era.

Ignoro
se la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l'innocenza é una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me,
di te tutto conosco, tutto
ignoro.

[Eugenio Montale]






mercoledì 7 maggio 2014

il mondo della scomparsa

Eredità

I nostri avi ci hanno lasciato in eredità
degli Schonbrunn, dei Palazzi d’Inverno,
dei Ponts Charles,
delle Piazza San Marco,
senza menzionare
i Westminster
che rappresentano
i drammi di Shakespeare,
i romanzi di Tolstoi
o la “suite n. 3” di Bach.

E noi altri,
cosa lasceremo in eredità
ai nostri discendenti?

Degli snack-bar,
delle stazioni di servizio,
dei garages,
e qualche anti-romanzo.

1977
Izet Sarajlić nato a Doboj nel 1930, è scomparso a Sarajevo il 2 maggio del 2002.


sabato 15 marzo 2014

vecchio post

La nostra società può essere definita come un feudo all’aria condizionata. Il nostro cervello accoglie il “nuovo”, il tecnologico come miglioria. Ma, finché si parlava di lavatrice questa tecnologia aveva la funzione di sollevare la fatica soprattutto femminile, e potrei citare mille altri esempi innovativi volti al “buono”. Ma la tecnologia è andata ben oltre, una volta scoperto che certi mezzi, specialmente legati alla comunicazione, sono tecniche di controllo sociale, quindi logiche di potere.
La tecnologia offre possibilità e limitazioni. Ma il suo uso, quando prevale, si sostituisce alle nostre funzioni “non tecnologiche”. Come dire che senza numero memorizzato sul cellulare noi non siamo in grado di imparare a memoria il numero – o meglio, sappiamo ancora farlo ma siamo disabituati dal farlo, e così il leggere pagina per pagina un libro. Perché farlo se internet ti dà la sintesi immediata? Il problema è che internet dà potere. Di conoscenza spicciola, di relazioni spicciole, di velocità idiota. Ma pur sempre una forma di potere. Da schiavi, ma pur sempre una forma di “protagonismo”.
Il danno di queste relazioni orizzontali e virtuali è quello di dimenticare le emozioni, le percezioni tattili, olfattive, sensoriali, emotive liquefacendole sull’altare dello schermo.
E creando una potenza immaginaria ed illusoria tutta volta alla distrazione e alle interruzioni cognitive. E così siamo in-formati ma non formati, digeriamo pillole di fatterelli ma non sappiamo più contestualizzarli in una analisi più generale. Sappiamo tutto sul particolare ma nulla del generale.

La consapevolezza di “qualcosa“ non necessariamente indica la strada del cambiamento o della trasformazione.
Per mettere in atto il “cum sapere“ c'è necessità di leggere il termine cum come con, insieme, in relazione. Altrimenti si rischia di isolarsi nel proprio sapere. Altra necessaria considerazione è che per porsi in relazione c'è bisogno di reciprocità, quindi di ascolto. E, oggigiorno, i tempi dell'ascolto sono inesistenti. Così come quelli della riflessione, figuriamoci quella della comunanza consapevole. Anzi, i luoghi ed i tempi dell'ascolto sono vanificati dal troppo “rumore”, dalla ridondanza di affermazioni che ci vengono propinate.
Ora, dato che la consapevolezza di qualcosa deve necessariamente trovare alloggio nella sua applicazione, altrimenti si riduce a teoria se non ha capacità di messa in atto e questa applicazione deve essere collettiva, non isolata a sé, altrimenti troverebbe solo testimonianza di pacificazione della propria coscienza.

venerdì 14 marzo 2014

Trattengo in me una “purezza” stolta che non semina grano, né consente lievito.

pioggia di rane

Dunque è così che dobbiamo vivere? Nel costante presentimento che ogni minuto speso lo è in direzione di qualcosa che, fondamentalmente, è fine a se stesso? E che non resta che uno spazio marginale per il senso, per la direzione intima, che ognuno contiene in sé. Che istintivamente ci ri-congiunge, come una colonna vertebrale immaginaria, verso l'alto, verso la linea tratteggiata della terra verso il cielo. Invece è così antagonista la direzione in cui dobbiamo spendere il nostro tempo, le nostre energie, le nostre gocce di sudore? Poggiando pesantemente i piedi sulla terra arida e affastellando scatole vuote? Cadendo ogni volta che si inciampa come fosse qualcosa di inesorabile. Orare, pregare, che non si lascia commuovere. Quasi esistesse un'unica legge: quella del visibile. Quale commozione renderebbe possibile la vista di un cuore e un'anima che suda nella sua imponderabile in-visibilità. Ci vorrebbe una pioggia di rane dal cielo a ricordo di Magnolia, a farci trasalire. A scansarci dalla direzione ottusa e orizzontale. A farci volgere gli occhi verso l'unica direzione possibile che, con minuziosa e costante pignoleria, esorcizziamo, giriandogli le spalle quotidianamente in nome dell'inutile affastellamento. Con-figurati come sagome al bersaglio, ognuno ricopre il cmquadro assegnatogli e vi ammucchia pile di mattoni a rappresentazione di sé e del proprio valore in linea orizzontale. In equilibrio costante tra apparizione e scomparsa. Limitandosi a pensare che le regole del gioco siano quelle scritte sulla terra che calpestiamo. Ci vorrebbe una pioggia di rane, l'ho detto, a ri-dettare le regole, a scompaginare e seppellire i cumuli affastellati. A farci volgere gli occhi al cielo tutti nella stessa direzione, tutti uguali per una volta, tutti memori di quel che c'è davvero da sapere. Tutti improvvisamente e consapevolmente umili nella percezione di quello che siamo.